di SIMONE DE FILIPPIS –
Sono Simone De Filippis, nato a Gallipoli 42 anni fa. Ho vissuto diversi anni a Taranto a causa di quel marinaio di mio padre, vivendo la casa al paese, nella piccolissima Felline, in pieno Salento, solo nel finesettimana, almeno per i miei primi undici anni.
La mia storia comincia già quindi da un ritorno, quello della mia famiglia dalla città (grandissima) al paese (invisibile dall’esterno). Ed è stato un trauma camuffato da necessità. Nuovi amici, nuovo stile di vita, nuovi spazi, nuovi bisogni che si sono fusi dolcemente con l’entrata nell’adolescenza, ma fortunatamente senza lasciare marchi profondi. Animo inquieto, da sempre, con uno spasmodico bisogno di condivisione, di amicizia e, soprattutto, di raccontare il tutto. Scrivevo fiumi di parole negli anni tra le medie e le superiori, dalle canzoni alle poesie ai diari segreti, dai racconti brevi alle favole per bambini, sfogandomi nei temi di italiano in cui eccellevo quasi sempre, in un bisogno di gratificazione che è difficile appagare e che, crescendo, si è trasformata nella necessità di mettermi in gioco, continuamente, e di alzare l’asticella.
Andare via di nuovo, quindi, dalla terra che nel frattempo era diventata mia, al termine del percorso delle scuole inferiori, è stato un passaggio obbligato, quasi, ostacolato inizialmente dallo stesso padre che aveva girato il mondo prima di me, a bordo delle navi. Finché mia madre non lo convinse che doveva andare così. E da quel momento mai un dubbio, mai un ripensamento ma solo tanta voglia di girare pagina e vedere come continuava la storia, un po’ come succede nei libri, quegli stessi libri che volevo tanto essere io a scrivere. È stato doloroso porre 700 km tra me e la compagnia di amici che mi aveva fatto diventare grande. Alcuni di loro non hanno retto all’assenza, probabilmente per colpe reciproche, e alcuni altri, pochissimi ma buonissimi, fanno parte ancora oggi del mio tesoro nascosto a Felline, ogni volta che torno.
L’università a Roma, alla facoltà di Scienze della Comunicazione, ha fatto da contorno e ha fornito la giustificazione ufficiale per il mio bisogno di affermazione che, me ne rendo conto solo oggi a più di vent’anni di distanza, altro non era che ricerca continua di me stesso, che prosegue ancora adesso. E ovviamente non poteva mancare la tesi di laurea che racconta “La pizzica ai tempi della globalizzazione”, un modo in più per ricordare a me stesso le radici che non si sono mai mosse da dove sono state impiantate, e mai si muoveranno.
Anno dopo anno ho cambiato tanti lavori nella capitale senza mai abbandonare la penna e il foglio bianco (tatuando anche la mia passione sulla pelle, una piuma e un calamaio). Concorsi letterari, alcuni vinti, pubblicazioni, menzioni, e poi finalmente il primo romanzo, che racconta proprio la vita di uno studente fuori sede in mezzo ad altri studenti fuori sede. E poi il master in giornalismo e giornalismo radiotelevisivo, che speravo avrebbe rinchiuso le mie parole in colonne da sfogliare tra le pagine dei giornali o da ascoltare nei tg quotidiani.
Come ogni vita, sono arrivate tante gioie, tanti dolori, tanti episodi che meritano di essere ricordati e tanta gente che li ha popolati, ma raramente, e lo dico senza paura di essere smentito, ho ritrovato la genuinità e la sincera propositività che ho vissuto a Felline, agevolate forse da un periodo storico che favoriva le corse col “Grillo” e i ritrovi in gruppi da 15 ragazzi fino a sera, piuttosto che i meeting virtuali e le chiuse davanti allo schermo di un pc. Non dirò che mi manca il mare, la collina della Madonna dell’Alto, le feste patronali, la rivalità costruttiva tra paesi, l’odore della campagna e degli ulivi, la piazzetta… Dico piuttosto che mi manca molto il modo in cui mi sentivo al sicuro in quei colori così sbiaditi da polaroid al sole.
Con la mia compagna, con la quale spero di poter diventare presto famiglia, torno spesso a Felline ma non tanto quanto vorrei, anche perché gli anni passano per tutti e il terrore di non ritrovare più le persone che ho lasciato la volta precedente si fa sempre più concreta, viaggio dopo viaggio, ritorno dopo ritorno. I nonni, gli zii, i marinai, gli amici, capita che non facciano più in tempo ad aspettarmi e se ne vanno, lasciando un vuoto che supera i 700 km e che non permette un’ultima volta ponderata, con cognizione di causa. Rimangono i ricordi e le fotografie, che sono indiscutibilmente le cose più preziose che ho. Non so se tornerò a Felline, ma so che porterò sempre Felline ovunque andrò, la sua educazione, i suoi valori, la sua semplicità, la sua genuinità e i suoi aneddoti, i suoi personaggi, i suoi peccati e i suoi vanti.
A chi sente il bisogno di partire, oggi, posso solo dire che i tempi cambiano e che è giusto ricercare la propria dimensione, che evidentemente non sempre è dove siamo nati. C’è bisogno di coraggio, sia per andare via che per rimanere, ma l’unica cosa che serve veramente è sapere quale direzione si vuole prendere. E poi basta chiudere gli occhi e godersi il viaggio.
Il mio paese
Il dialetto io non lo so dire
chè il mondo mi ha rapito troppo presto
ed io che, sì, mi son fatto rapire
ritorno a casa mia con un sol gesto.
Con l’occhi chiusi e il cuore rilassato
rimango assorto e spengo tutto quanto
e torno lì,che in fondo ci son nato,
là dove ho consumato il primo pianto.
Ripasso a mente strade ed episodi
che han fatto l’uomo intero che qui scrive
non tanto ormai per tesserne le lodi
ma per capirne il mondo e come vive.
Campagna grezza e ruderi crollati,
amici un po’ paesani e tanto veri
ormai son tutti monaci o ammogliati
ciascuno col suo fato e i suoi pensieri.
La scuola che ha cresciuto tante menti
rimane incastonata in mezzo al verde,
dal primo cittadino ai miei parenti
che del blasone il fasto ormai si perde.
Fioriscono gli ulivi e il vino buono
sfidando malattie e chi sparge il sale,
e ancora puoi sentire il dolce suono
delle campane a festa di Natale.
Il prete che conosce tutti quanti
invita a fare i bravi e perdonare
non come lui, piuttosto come i santi
dei quali gesta noi dovean copiare.
Ricordo giorni buoni ed altri meno
trascorsi con il grillo del mio amico
lontani dalle grinfie di quel treno
che mi ha portato nell’impero antico
seguendo nuove strade ed ambizioni
che mi hanno fatto diventare grande
accumulando lodi e delusioni,
cercando nuovi sbocchi alle domande
non tanto per soddisfazione mera
che niente mi riporta nelle tasche,
ma per la vocazione mia sincera
che ho di ardere di cuore, come frasche.
Andando avanti forse me ne pento
ma il tempo è già passato inconcludente
ed io che riconosco ciò che sento
un po’ rimpiango il posto e la mia gente
che forse non sarà come i francesi
già pronti a fare la rivoluzione
piuttosto sono solo fellinesi
con mani grandi e un cuore da leone.
Niente è cambiato se ci torno adesso
forse le case sono un po’ cresciute
così com’è cresciuto anche il più fesso
con qualche ruga in più sopra la cute.
Ma io che andando, ahimè, ho rinunciato
a viver di emozioni genuine
lasciando tutta intonsa nel passato
la vita che avrei avuto lì a Felline.