Di GIAMMARCO MIONE – (a cura di Piero Tafuro)
Il mio nome è Giammarco Mione, ho 30 anni, sono originario di Brindisi e sono laureato in infermieristica. Il mio percorso formativo nasce immediatamente dopo il termine del Liceo, quando, appena diciottenne, avevo l’ambizione di ottenere il tanto rinomato “posto fisso”. Innamorato della mia città natale, che tanto mi aveva dato durante la mia adolescenza colma di amici, decisi di puntare sul mio territorio, iscrivendomi presso l’Università degli Studi Aldo Moro di Bari.
Una volta concluso il mio percorso formativo, dovetti far fronte ad un triste realtà: le tante opportunità lavorative che avevano distinto il mercato lavorativo degli infermieri nella prima decade degli anni duemila si erano purtroppo assottigliate. Gli ospedali e le cliniche private della Puglia erano sature di tutti quei professionisti che in qualche modo anche dal Nord dell’Italia erano riusciti ad ottenere il ricongiungimento con le famiglie dopo anni di sacrifici. La mia Brindisi mi stava stretta e decisi di esplorare altre mete lavorative per ripagare me stesso di tutti quei sacrifici fatti. Venni a conoscenza, durante le varie ricerche, di un reclutamento massivo per infermieri verso la meta “alternativa” del Regno Unito.
Le premesse erano ottime: il mio inglese parlato era tra i migliori dei candidati, lo stipendio per un neolaureato era ben al di sopra della media di quello italiano e avrei avuto il volo e il primo affitto pagato in una stanza dei dormitori dell’ospedale stesso. Il nuovo Giammarco era pronto a un’avventura del tutto nuova visto che durante tutto il mio percorso di studi non ero mai stato un “fuori sede”. Tutto faceva presagire il meglio. Venendo da una regione italiana quale la Puglia, che offre un clima temperato per la maggior parte dei mesi dell’anno, ero psicologicamente preparato ad affrontare un clima ben più ostile e freddo. Ciò che si parava di fronte ai miei occhi era una città completamente nuova e fuori dagli standard architettonici ai quali ero abituato, mi sembrava di essere approdato in un dipinto dell’Ottocento frastagliato dal progresso tecnologico dell’uomo.
Quando si dirotta la propria vita su un cambiamento così radicale e profondo, si cerca di convincere se stessi, ma anche gli altri, della scelta fatta. l ripensamenti e i timori generali, li ho sempre lasciati in secondo piano e ho cercato di apparire forte e ben determinato, nel frattempo però vedevo crescere la mia esperienza e il mio bagaglio culturale. Non nego di aver provato invidia per tutti coloro i quali sono stati più pazienti e caparbi di me, mentre, il sottoscritto sceglieva la via più breve dell’emigrazione per ottenere la sicurezza dello scrollarsi di dosso la precarietà che da sempre contraddistingue il Mezzogiorno. Tutte queste incertezze sono state comunque mitigate nel momento in cui ho conosciuto per caso quella che è la mia attuale compagna; Anche lei pugliese come me.
A differenza di molti miei connazionali, non ero molto dipendente dal buon cibo e dal clima ottimale del Salento. Quello che realmente mi mancava era il contesto socio-culturale in cui ero nato. La vita imponeva una più marcata dedizione al mondo lavorativo ed alla carriera, mi mancava il calore dei miei concittadini. Tentai dunque di arginare questa mia mancanza trasferendomi nella più calda e mite città marittima di Brighton. Far parte della categoria “Italiani all’estero” ti fornisce quasi il dovere morale di trasmettere la tua “italianità” a chiunque ti circondi, siano essi connazionali e non; di colpo il patriottismo che non mi ha aveva di certo contraddistinto nel mio primo biennio inglese aveva ricevuto una grossa impennata; ho iniziato a parlare il dialetto da me accantonato sin dai tempi del liceo in casa, forte anche di una convivenza con una ragazza pugliese. Inoltre ho imparato ad apprezzare di più il culto delle mie radici culinarie che mi spinsero a chiedere frequentemente ai miei genitori di spedirmi il tanto rinomato “pacco da giù”, pieno di leccornie e prodotti locali di difficile reperimento in una cittadina britannica. La mia esperienza da fuorisede ha contribuito a rendermi non solo un professionista migliore, ma anche un uomo più maturo e indipendente. Mi ha permesso di staccarmi per la prima volta dal mio nucleo familiare d’origine e aprire i miei orizzonti. Ho avuto modo di integrarmi in un contesto multietnico e multiculturale, inserendomi in un mondo più civile rispetto ai canoni ai quali ero abituato.
Nell’ultimo triennio, con la crisi sanitaria dettata dalla pandemia, ho avuto l’opportunità di ritagliarmi una posizione lavorativa anche nella mia città natale. Chiaramente sono stato agevolato dalla carenza di infermieri negli ospedali e ne ho subito colto la palla al balzo per ritornare con una maggiore consapevolezza della mia figura. Sono fermamente convinto del fatto che, aver avuto il privilegio di lavorare all’estero con colleghi provenienti da diverse nazioni del mondo, abbia accresciuto in me ulteriori conoscenze trasmissibili anche nel mio attuale contesto lavorativo.
Consiglio ai giovani che vorrebbero lasciare la propria terra di affrontare con serenità questa sfida personale. Viaggiare gratifica anima e corpo, apre a nuove culture ed ideologie e mette alla prova tolleranza e pazienza. Ti permette inoltre di apprezzare la famiglia ed il valore dell’amicizia. Nonostante sia tornato già da un anno ho ancora il vivido e caro ricordo di tutti coloro i quali hanno fatto parte della mia vita inglese e che hanno contribuito nel loro piccolo ad agevolare la mia personale realizzazione come professionista e come uomo migliore.