di PIERO TAFURO –
Sono nato negli anni 60, quindi, insieme allo scomodo status di “anziano”, posso dire di aver acquisito sul campo anche quello di conoscitore di certi riti che, in quegli anni, nel mio paese si celebravano in quasi tutte le famiglie. Riti antichi, quindi sacri, che avevano le loro regole, i loro tempi e persino i loro inconfondibili odori.
Quello del “pizzu all’ampa” era in realtà un rito quasi secondario legato al ben più articolato rito del pane: una specie di prova che, in virtù del prodigioso intervento di Sant’Alberto, protettore dei fornai, e forse anche di San Pancrazio – che, secondo una mia libera interpretazione, aveva invece il compito di assistere i ragazzini sempre affamati -, trasformava una semplice pallina di pasta di pane già lievitata, in uno scrigno morbido e caldissimo che si poteva condire con olio d’oliva, pomodoro e, soprattutto, con una generosa manciata di fantasia.
La pallina di pasta di pane, semplicemente appiattita e arrotondata con le mani, era, come detto, il miglior sistema per testare la temperatura del forno in un periodo storico in cui lo spreco era considerato – a ragione – un peccato gravissimo che diventava addirittura mortale quando aveva come “oggetto” tutto ciò che riguardava il pane. Me li ricordo i gesti di nonna Antonietta che sollevava da un solo angolo le coperte poste sopra il pane lasciato a lievitare per tante ore – dopo la “scanatura” alla quale aveva partecipato tutta la famiglia – e prelevava con l’aiuto di un coltello il pezzo di pasta dal “pupo” scelto proprio per le prove del forno e, quindi, destinato anche a trasformarsi in un buon numero di “pizzi all’ampa”.
Dopo aver appiattito e arrotondato sulla tavola di legno il pezzo di pasta, la semplice catena di montaggio prevedeva l’intervento di nonno Gigi che lo prelevava con la sua pala da fornaio – stranamente fatta di legno chiaro! – e lo posava delicatamente al centro del forno, sulle “chianche” di antica pietra calcarea diventate roventi grazie al fuoco che da qualche ora era stato acceso utilizzando i ciocchi d’ulivo. Bastavano pochi secondi e la magia si compiva proprio sotto gli occhi di noi giovanissimi nipoti: il disco di pasta si gonfiava fin quasi al punto di esplodere poi, sotto la guida sapiente del nonno – e della sua pala -, veniva girato, rigirato, sollevato e quasi coccolato fin quando, nel giro di pochissimi minuti, raggiungeva il punto ideale di cottura. Il pizzu all’ampa aveva odore di pane – naturalmente -, di fumo buono, di legno prezioso e, soprattutto, aveva l’indescrivibile odore che caratterizza le promesse più solenni. Dopo averlo aperto tagliandolo in due in senso orizzontale, per noi ragazzini veniva condito con pomodoro e olio d’oliva; agli adulti invece, era concessa qualche interessante aggiunta come, ad esempio, qualche pezzetto di peperoncino oppure una piccola quantità di “ricotta ascanti”, la crema piccante fatta con ricotta stagionata, dall’odore deciso e dal carattere inequivocabilmente salentino.
Oggi la tradizione del pizzo all’ampa resiste a San Pancrazio Salentino e in altri paesi vicini ma ha dovuto inevitabilmente concedere qualche importante variazione alla modernità. Del resto i forni privati come quello di mio nonno Gigi sono diventati rarissimi, mentre le moderne panetterie hanno ormai una vocazione di tipo semi industriale e, salvo rare eccezioni, non possono certo contare su forni a legna con la base di cottura fatta di chianche calcaree. Il pizzo all’ampa “moderno” quindi si vende soprattutto nelle pizzerie e viene farcito con salumi, formaggi, mozzarella e altre specialità che, saranno anche di buona qualità, ma non hanno certo quel sapore romantico che sempre premiava la fame della gente semplice di una volta.