di FABIOLA ASTORE –
Quella che sto per narrarvi è una storia nella storia. È la storia di Diana Muscogiuri, una delle insegnanti più anziane di San Pancrazio Salentino, e di suo padre, Salvatore, noto in paese come “mesciu Tore”. È la storia di Monteruga, una comunità nata un po’ per caso e un po’ per necessità e vissuta per decenni tra le mura di un piccolo borgo rurale che nella memoria di tutti conserva ancora i tratti di un posto felice.
Monteruga era la principale e la più grande masseria di un comprensorio che includeva altre cinque strutture di antica costruzione sparse nella terra d’Arnèo. Questi terreni, inizialmente paludosi, erano stati bonificati dall’Ente Riforma del governo fascista già alla fine degli anni ‘20 con l’unico obiettivo di incrementare le attività produttive della zona. La gestione dell’area passò poi alla S.E.B.I – Società Elettrica per Bonifiche e Irrigazioni -, che si occupò di dare a essa una nuova vita e agli agricoltori altre opportunità di lavoro. È qui che subentra il protagonista della nostra storia: Salvatore Muscogiuri, un piccolo imprenditore edile, molto bravo per i suoi tempi. Aveva frequentato solo la seconda elementare, ma il padre Fedele, anche lui costruttore, gli aveva fatto prendere lezioni private per imparare la geometria, in previsione del lavoro che avrebbe ereditato.
Il piccolo villaggio era distante circa 7 km da San Pancrazio e Salvatore li percorreva ogni giorno, in bici, al mattino; rincasava solo nel tardo pomeriggio, dopo un’intera giornata trascorsa a dirigere i lavori di costruzione di alcuni edifici, in primis le case coloniche: due, tre file di casette con porticato nelle quali avrebbero vissuto i lavoratori che dal sud del Salento sarebbero arrivati lì con le famiglie per lavorare a Monteruga. La maggior parte di loro si occupava del tabacco, dalla coltivazione alla cucitura delle foglie, sino alla formazione di lunghi cordoni da essiccare al sole. La notte i telai di foglie venivano impilati e protetti dall’umidità. Poi venivano realizzate delle balle, vendute e spedite. A questa ricca produzione manifatturiera Monteruga riservava un edificio ad hoc di tre piani. Nel comprensorio vi erano anche tante vigne, quindi alcuni coloni lavoravano nello stabilimento vinicolo che Salvatore aveva costruito con cura negli anni.
C’era poi la lavorazione delle olive nel frantoio oleario e tutt’intorno, nelle altre masserie, si producevano formaggi e latte, si allevavano animali, si coltivavano i terreni. Col tempo furono costruite anche la scuola, dove ogni anno una supplente diversa arrivava dalla provincia di Lecce per scolarizzare i figli dei coloni, la foresteria, un appartamentino arredato di tutto punto che serviva per ospitare gli ingegneri della S.E.B.I che venivano da Bari, e la Chiesa nuova, dedicata a Sant’Antonio Abate, il vero orgoglio di Salvatore. Era una piccola chicca fatta di tufi a vista bagnati di latte, usato come collante per preservare le pietre dallo sgretolamento. In quella Chiesa nei decenni successivi si svolsero battesimi, matrimoni, comunioni, insomma tutte le celebrazioni più felici di una normale comunità.
La grande masseria era sottoposta all’amministrazione locale di un perito agrario arrivato direttamente da Firenze con la famiglia, il signor Degli Innocenti, e di una serie di fattori ciascuno dei quali responsabile su una diversa produzione. Ognuno riferiva del proprio lavoro ai rispettivi capi, fissi tra Monteroni e Bari. Esisteva una ben definita gerarchia che ciascuno rispettava con la dovuta attenzione. Ma Monteruga non era solo un mondo a sé stante: gli abitanti si relazionavano di continuo con le cittadine più vicine come Veglie e San Pancrazio. Ci andavano in bici, a piedi o con i birocci ed erano totalmente integrati nelle comunità limitrofe, al punto che nel periodo della decadenza di questo villaggio rurale gli abitanti si sono trasferiti proprio nei paesini circostanti.
L’8 settembre del 1943 fu un momento cruciale per la vita di questo piccolo borgo: la firma dell’armistizio decretò il passaggio dell’Italia in alleanza con gli americani, già sbarcati in Sicilia. I tedeschi si ritirarono in gran fretta dai nostri territori ma rimase negli abitanti sanpancraziesi la paura di una loro ritorsione e di nuovi bombardamenti, così quasi tutti evacuarono da San Pancrazio. Salvatore, Carmela e i loro figli Fedelina, Diana, Maria Antonia e Italo furono tra questi e il 15 settembre del 1943 si trasferirono a vivere a Monteruga, dove occuparono due delle nuove case coloniche. Ci rimasero sino al 10 giugno del 1944. Diana ricorda bene i mesi della sua permanenza nel borgo dove papà Salvatore continuò a lungo a lavorare come costruttore, mentre Mamma Carmela cuciva e da bravissima cuoca si dedicava alla preparazione dei pasti che talvolta si consumavano all’aperto, insieme alle altre famiglie, in un clima di grande e sincera convivialità. Diana, come gli altri bambini di Monteruga, di giorno andava a scuola tra quei banchetti ora completamente abbandonati; la sera ci si divertiva tutti insieme ai giochi tradizionali salentini, senza alcun giocattolo ma con tanta fantasia. Per tenersi aggiornati sugli sviluppi della guerra a turno si recavano in calesse o a piedi nei paesini circostanti per acquistare il giornale o si ascoltava la radio da qualche fortunato che ne possedeva una. Al tramonto il piccolo borgo prendeva vita: alcune donne sedevano sotto i porticati, ciascuna vicino la propria abitazione con enormi cataste di foglie di tabacco destinate all’essicazione; altre cucinavano. Gli uomini si riunivano a giocare a carte e a parlare.
Un giorno, la vita degli abitanti di Monteruga venne scossa dall’arrivo di una compagnia di ufficiali inglesi che occupò una parte delle case coloniche e la foresteria, portando con sé le jeep, le moto, la carne in scatola, il cioccolato, meraviglie nuove agli occhi degli abitanti. Dopo la guerra tutto era prezioso, anche le bottiglie di vetro che i soldati gettavano via e che i coloni riciclavano per conservare la salsa di pomodoro. Diana racconta che tutti i bambini erano incuriositi da quella presenza nuova, accolta dagli abitanti di Monteruga con grande ospitalità. Ci giocavano, spiavano le loro mosse e nelle loro casette con la bonaria impertinenza tipica di quella età. In questa nuova dimensione gli ospiti si integrarono presto e bene, imparando un po’ della nostra lingua e insegnando molto della loro, soprattutto a Italo, il piccolo fratellino di Diana, che trascorreva ore ed ore a parlare con i militari nell’incredulità generale.
La sua famiglia sin dalla firma dell’armistizio aveva perduto le tracce dei fratelli Antonio e Alberto, chiamati alle armi. Arrivavano notizie di bombardamenti in varie città d’Italia. L’insegnante di turno era lontana dalla propria terra natale, come l’amministratore del borgo e altre decine di famiglie insediate a Monteruga. E allora ci si confortava nell’amicizia reciproca, ci si rifugiava in quel senso forte di comunità che gli abitanti avevano saputo instaurare, con pazienza e comprensione reciproca. Forse queste descrizioni si scontrano con le mura piene di muffa, gli arredi logori, la nomèa di “borgo spettrale” legata all’immagine di Monteruga oggi, ma niente di tutto questo rispecchia quello che Diana ci ha raccontato, ossia la vita sociale sana di una comunità che, prima di dissolversi nei ricordi del passato, ha saputo custodire tra quelle mura le virtù di ognuno dei suoi abitanti e legare tutto a sentimenti e ricordi indissolubilmente felici.
Con la gentile concessione della sig.ra Diana Muscogiuri, che ha rilasciato un’intervista esclusiva a Punto Sud News.
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