di PIERO TAFURO –
C’è stato un tempo in cui, qui al sud del Sud, per poter vivere in pienezza un amore vero – o comunque qualcosa che “provvisoriamente” somigliava a esso -, a volte bisognava correre, e non in senso metaforico.
Era il tempo genuinamente romantico delle cosiddette “fuitine”, ovvero, di quelle inarrestabili tempeste ormonali che si placavano solo con una sorta di rito pagano che nei paesi del Salento era definito “fuciuta”, oppure “issuta ti casa” o ancora “scappatura” o con altri mille nomi differenti con i quali si identificava la più classica “fuga d’amore” nei vari paesi.
Era la romanticissima ma non sempre proprio inevitabile fuga d’amore, che serviva a mettere davanti al fatto compiuto tutte le persone che, in maniera reale o del tutto finta, si opponevano a un amore e lo ostacolavano fino a rendere necessario un atto estremo ma, per fortuna, molto meno drammatico di quello posto in essere dagli immortali Romeo e Giulietta.
La fuga d’amore o “fuciuta” era un autentico rito con regole antiche, quasi sacre, codificate e quindi imprescindibili; un rito lontanamente associabile al manzoniano “matrimonio a sorpresa” con cui due innamorati consegnavano appunto, una sorpresa, non direttamente al sacerdote, ma ai rispettivi genitori e, di riflesso, all’intera comunità.
Il codice della “fuciuta” prevedeva un preliminare stato di malessere provato dai due innamorati protagonisti – spesso giovanissimi -, un disagio dovuto all’opposizione dei genitori di uno o dell’altro – oppure di entrambi! -, una oggettiva difficoltà a incontrarsi per dare un minimo di sfogo agli “ormoni urlanti”, un divieto legato a ragioni di carattere economico e, più raramente, sociale.
La motivazione più comune era ovviamente l’opposizione dei genitori spesso legata all’età dei due colombelli pronti a spiccare il volo ma, soprattutto negli anni 40 e 50, dietro questa opposizione a volte si celava una difficoltà economica delle due famiglie, e quindi un’oggettiva impossibilità di affrontare le spese, notevoli anche in quegli anni, di un matrimonio benedetto con tutti i crismi della tradizione. Il cosiddetto matrimonio “ti carbu” – ossia quello garbato – richiedeva infatti uno sforzo economico non indifferente che non era alla portata di tutti, e quindi, per raggiungere il risultato dell’unione ufficiale dei due giovani risparmiando un sacco di soldi, per esempio, sull’acquisto dell’abito bianco da sposa, sui frugali ma comunque onerosi ricevimenti in occasione della promessa e del matrimonio vero e proprio, le due famiglie si mettevano d’accordo di nascosto e organizzavano insieme la “fuciuta” dei ragazzi.
Questo espediente, accompagnato dai plateali ma finti litigi con cui le famiglie tentavano di convincere il vicinato e l’intera comunità che la fuga non era stata affatto decisa a tavolino, si traduceva dunque in un corposo risparmio, poiché, in caso di fuga e quindi di peccaminosa “consumazione precoce e non benedetta” il rito del matrimonio doveva poi essere celebrato più o meno all’alba “a missa mprima” , davanti a uno degli altari secondari e con il prete e i due sposi – svergognati! – vestiti nella maniera più sobria e ordinaria possibile.
Nel caso della “fuciuta” tradizionale più frequente, invece, i due innamorati concordavano il giorno e l’ora della fuga e trovavano la complicità di un “compare” o di una “commare” che avevano il doppio compito di trovare un nascondiglio adatto e, a fuga avvenuta, di avvisare i famigliari dei due “maratoneti”.
Semplici e “storicizzate” erano anche le scene di rabbia e disperazione che dovevano improvvisare per forza le madri dei due ragazzi e le regole del ritorno: i due fuggiaschi – spesso accompagnati da coloro che avevano accettato di essere loro complici – si presentavano prima a casa dei genitori della sposa pronunciando entrambi la parola “pirdunimi” e ricevendo, prima del perdono, uno schiaffo sulla guancia (nnu scarzuni). La stessa cosa avveniva poi in casa dei genitori dello sposo anche se, in quel caso, lo schiaffo era spesso dato con più forza poiché, nella quasi totalità dei casi, toccava proprio a loro il compito di provvedere, a tempo indeterminato, al vitto e all’alloggio dei due piccioncini… e del piccolo frutto della fuga d’amore che, quasi sempre, maturava esattamente nove mesi dopo.