di ALBERICO BALESTRA –

Uno degli aspetti più complessi e affascinanti della storia salentina è, sicuramente, il brigantaggio, la cui fenomenologia variò nel corso dei secoli, dando vita a pure forme di banditismo, o a movimenti di lotta, più o meno ispirati da motivazioni politiche e ideologiche.

Ciro Annicchiarico fu un esponente di spicco del contropotere nel Sud Italia, archetipo di fuoriuscito e capo di una corrente che al suo interno contemplava eversione e strategia del terrore; aspetti, questi, attribuiti al suo operato, che molto colpirono l’immaginario collettivo, e che offrirono il destro, sia a storici che a scrittori, per una interpretazione della sua vita in chiave politico-sociale, ma anche picaresca e un po’ romantica.

Figlio della temperia culturale giacobina che imperversava nelle province del Regno, e in particolar modo nel Salento, Ciro Annicchiarico nacque a Grottaglie il 16 dicembre 1775. A venticinque anni divenne sacerdote e maestro di canto gregoriano. “Papa Giro”, questo era il nome con cui veniva appellato. Ma nel 1803, accusato dell’assassinio di Giuseppe Motolose, antagonista in amore per una certa Antonia Zaccaria, piacente e allegra vedova di origine francavillese, chiamata “la curciola”, fu arrestato e condotto a Lecce.   Condannato a quindici anni di esilio, da scontare in prigionia, riuscì a fuggire tornando nella sua città natale.

Nel 1808 il padre del Motolese ottenne dalle autorità che si ordinasse di nuovo il suo arresto.  Detenuto nel carcere di Lecce, riuscì nuovamente a evadere. Datosi alla macchia, fondò, nel 1813, con il fratello Salvatore, una banda di ventiquattro persone, giurando lo sterminio dei persecutori.

Lascia perplessi l’ultimo atto della vicenda terrena di questo brigante. Senza formulare alcun interrogatorio, alcun processo, colui che “per diciotto anni” era stato “padrone assoluto della provincia, facendo impazzire molti generali francesi, italiani, svizzeri, tedeschi, napoletani” , venne giustiziato la mattina dell’8 febbraio 1818, nella pubblica piazza di Francavilla Fontana. Evidentemente anche in catene destava timore, perché capace di fare rivelazioni sul mondo delle società segrete salentine le quali, a un certo punto, gli avevano voltato le spalle, decretando la fine del suo dominio in Terra d’Otranto.

 Al palazzo Basile, ora Di Castri, vi era il tribunale militare che comminava le condanne a morte agli insorti. Francavilla doveva essere d’esempio con lezioni esemplari verso i più convinti degli insorgenti che erano, appunto qui. Ciro Annicchiarico era il capo di stato maggiore dell’esercito insorgente della Repubblica Salentina. Nominato a tale incarico nel corso della Dieta per la mobilitazione in armi – contando su circa 30.000 uomini – che si tenne a Galatone.

Alla fine dell’interrogatorio don Ciro raccomandò alla Commissione di mettere a verbale che egli si era arreso fidandosi della parola del generale Curch che non era stata mantenuta. All’alba fu condotto nella cappella dei Sette Dolori, dove ordinariamente i condannati a morte ricevevano gli estremi conforti religiosi. Qui andarono i padri Liquorini per confessarlo. Ma don Ciro, sogghignando: «Via! – disse – non sono io un prete? Non sono io abate e vostro superiore? Conosco le mie colpe e i miei errori». E rifiutò di confessarsi, mentre i padri lo imploravano di mettersi nelle mani di Gesù Cristo, morto in croce per l’umanità, che sicuramente per compassione lo avrebbe perdonato. Prima dell’esecuzione espresse come ultimo desiderio quello di voler parlare col generale Church. Ma il desiderio rimase insoddisfatto perché il generale si rifiutò categoricamente, ben conoscendo i retroscena della cattura che non voleva fossero pubblicamente divulgati. Fu, quindi, condotto a morte.

Camminava tra due fila di soldati con aria di altera sfida. Le strade erano piene di spettatori, le campane suonavano a rintocchi. Una bara precedeva il corteo. Arrivato in piazza, lo aspettava uno squadrone di fucilieri e quando un soldato si avvicinò per legargli una bianca benda sugli occhi, disse: «Non voglio morire così; voglio morire come un soldato. A occhi aperti. Ecco il mio petto!».

Ma un ufficiale gridò che secondo la sentenza doveva essere giustiziato come un malfattore: sparato alle spalle. Quelle parole furono più di una fucilata per don Ciro, che si perse d’animo e abbassò il capo sul petto. Venne bendato e posto con le spalle rivolte al plotone. Un silenzio gelido si stese sulla piazza, da poco erano suonate le 21. Poi una scarica di fucileria lacerò il silenzio della sera, dissolvendo il mito di don Ciro Annicchiarico. Un attimo dopo stramazzò a terra supino; si vide allora luccicare qualcosa sul petto: una grossa collana con un teschio d’argento, simbolo dei Decisi, che qualcuno ebbe l’ardire di strappare.

Gli fu tagliata la testa che fu messa in una gabbia di ferro e portata sull’orologio della piazza di Grottaglie. “Papa Giro” aveva solo 42 anni.