di CHIARA CHIEGO –

Pensate a una torrida giornata di metà agosto nel Salento; la strada sterrata e polverosa immersa nella caligine del pomeriggio, i muretti a secco cingono gli ulivi, mentre alte e acute, salgono al cielo voci femminili. Cantano di amore, di incontri proibiti, di sguardi rubati, in un periodo storico nel quale alle donne, alle ragazze, non era neppure permesso camminare al fianco di un giovane uomo.

Era il 1954 quando l’etnomusicologo americano Alan Lomax, accompagnato da Diego Carpitella, antropologo ed etnomusicologo calabrese, decise di registrare i canti della tradizione salentina. Ecco che così nacque una delle più importanti testimonianze della musica locale che ancora oggi possiamo ascoltare. Nelle registrazioni dall’audio sporco e reale, le voci ruvide di anziani, donne e uomini, si mescolano talvolta al suono dei sonagli squillanti dei tamburelli, a volte alle note veloci di qualche organetto. Un violino o una chitarra, spuntano nelle registrazioni a impreziosire il tutto, soprattutto nelle pizziche, ma la maggior parte dei canti sono composti da voci che sanno di lavoro e sacrificio.

I canti polifonici da lavoro degli “spaccapietre” di Martano risuonano come una bizzarra cantilena simile ai canti dei partigiani, mentre le voci sinuose dei pescatori di Gallipoli che intonano “Lu rusciu te lu mare”, sembrano muoversi come onde gentili. Le donne fanno i controcanti sulle pizziche d’amore, mentre gli uomini partecipano al vivace botta e risposta negli stornelli. Le parole quasi misteriose dei canti funebri di origine grìka invece, sembrano una ninnananna per cullare l’animo di chi non c’è più e il cuore di chi resta.

Ma perché un etnomusicologo americano decise di registrare proprio i canti salentini? Il suo non fu un viaggio unicamente in Puglia: Alan Lomax viaggiò per tutta l’Italia, scoprendo le varie tradizioni musicali di Emilia Romagna, Campania, Abruzzo, Sicilia e tante altre regioni. Trasferitosi prima in Gran Bretagna e poi in Spagna dal Texas perché mal visto dal governo americano del tempo in quanto poco conformante agli standard del post secondo dopoguerra, Lomax era sicuramente uno spirito libero, che aveva viaggiato tanto insieme al padre etnomusicologo, e al quale pare interessasse solo e soltanto la musica. Una delle sue preoccupazioni era che il progresso e il boom economico che si stava verificando in quegli anni, avrebbe presto spazzato via le tradizioni musicali orali. Ci sono varie riproposizioni editoriali di questa raccolta di brani, intitolata “Italian treasury”, spesso corredate da foto d’epoca molto evocative: chi ha avuto nonni nati agli inizi del ‘900, forse avrà visto le donne dai grembiuli neri, gli uomini abbronzati dalla camicia bianca perennemente nei pantaloni, le giacche pesanti, i fazzoletti scuri annodati sul capo, i rosari sgranati da dita nodose. E ritrovare i nostri anziani di un tempo in quelle immagini, in quelle voci, è sempre una grande emozione.

Questo viaggio nel tempo e nelle vite di quelle persone è possibile grazie a uno studioso che, partito dall’altra parte del mondo, ci ha donato la possibilità di riascoltare rapiti la voce del nostro passato.