di ROBERTO VIVACQUA –

Anticamente il territorio salentino era tutto un pullulare di masserie e case coloniche. Alcune di queste erano addirittura fortificate per resistere alle scorribande turche; su di esse regnava incontrastata una figura mitica, forte e autoritaria che governava latifondi dispersi a vista d’occhio e gestiva i raccolti, il bestiame e tutti i prodotti che tali attività producevano.

La figura in questione era “la patruna (la padrona)” che, fino a qualche decennio fa, era la dispensatrice di giornate lavorative per i coloni e gestiva i commerci e gli affari di ogni sorta; insomma, rappresentava nelle masserie il vero potere autoritario insieme al marito, il quale, però, solitamente preferiva pensare al bestiame o ad altre “attività”, magari in compagnia di contadinotte che qui svolgevano i ruoli più diversi.

Con l’arrivo della festa patronale “lu fattore”, ovvero colui che dirigeva i lavori agricoli per conto della patruna, doveva omaggiare la stessa portandole in dono “lu jadduzzu” (il gallo) allevato per questo scopo, e “na cascetta di marangjane” (una cassetta di melanzane), con le quali la donna e i suoi famigliari avrebbero pasteggiato il giorno della festa, gustando lu jadduzzu rrustutu (arrostito), preceduto da una sostanziosa porzione di parmigiana di melanzane.

Così, la vigilia della festa, il fattore faceva questi doni alla patruna, grato per tutto il benessere che da questa derivava, magari spesso integrati da qualche partita di grano o da una quantità di uva, e che non venivano neanche riportati nei conti con la sua datrice di lavoro.

La tradizione de lu jadduzzu si divulgò presto in ogni landa del Salento e, soprattutto nelle province di Lecce e Brindisi, divenne un’usanza comune un po’ in ogni paese. Ecco perché, ancora oggi, nel giorno del Santo Patrono è usanza mangiare lu jadduzzu e la parmigiana di marangjane. A Lecce, per esempio, vengono entrambi consumati per la festa di Sant’Oronzo, San Giusto e San Fortunato, mentre il galletto ruspante cotto nel sugo che andrà a condire la pasta, è il re della tavola di Maria Ss.ma della Fontana, patrona di Francavilla Fontana, dove addirittura prende il nome di “Turicchio”. Qui lu jadduzzu viene allevato per tutta l’estate da chi appartiene alla comunità contadina, per poi essere ucciso dallo stesso allevatore proprio per la festa patronale.

Il gallo arriva fino a Foggia, dove viene preparato ripieno e mangiato il giorno di Ferragosto, accompagnato dalla frase “Chi magnè galluccè e chi gnottè velenè”, (chi mangia il galletto e chi ingoia veleno), che sottolinea la fortuna di avere nel proprio piatto un cibo davvero succulento, segno della vera ricchezza popolare.