di PIERO TAFURO –

Erano barbieri, contadini, muratori che, il più delle volte, avevano frequentato la scuola sì e no sino alla seconda elementare, eppure, in ogni paese del Salento c’era qualcuno di loro che conosceva a memoria e sapeva declamare con sfoggio di apprezzabile talento le poesie “te lu Capitanu Bbrecche”. Dietro questa pittoresca mutazione dialettale dello pseudonimo “Capitano Black”, non si nascondeva affatto – poiché lo conoscevano tutti -, Giuseppe De Dominicis, il poeta di Cavallino amato, e quasi idolatrato, soprattutto dal popolo.

D’altronde, quando non esisteva il cinema e, almeno nella maggior parte dei paesi salentini, il teatro era una specie di rarissimo, se non  irraggiungibile, luogo delle meraviglie, il compito di intrattenere e far divertire un pubblico sempre numeroso e attento, toccava proprio a coloro che, nelle case, nelle “putee” – le nostrane osterie – e, più frequentemente, nelle piazze, sapevano raccontare le imprese “de lu Pietru Lau”. Si declamavano così i “Canti de l’autra vita” – una specie di Divina Commedia in dialetto leccese -, o i drammatici fatti verseggiati nel poemetto Li martiri d’Otrantu”, oppure i delicati e musicali “affreschi” tratti dalle raccolte di Poesie “Spuddhiculature”, “Scrasce e gersumini” o “Descorsi a ssulu” che il grande “Capitano Black”, Giuseppe De Dominicis da Cavallino, aveva regalato al popolo – e non solo – nel breve soffio di quella sua vita che si era interrotta improvvisamente dopo soli 36 anni.

Come scrisse il critico letterario Francesco Lala nel lontano 1964, “L’opera poetica di Giuseppe De Dominicis è legata appassionatamente ad una tradizione e a un popolo” e, proprio quel popolo, ricambiò gli sforzi del poeta dandogli in cambio una grandissima popolarità e accogliendo con grande entusiasmo la poesia che si nutriva con la lingua delle radici; quella poesia che, secondo quanto scritto nei versi d’apertura della raccolta “Scrasce e gersumini”, è paragonata dallo stesso De Dominicis a una “carusa” che, “porta rrobbe de casa e bbae strazzata/ Ae estuta de rrobbe de cuttone/ ci mama a lu tularu n’ha tessute” (indossa abiti da casa e va malconcia/ Va vestita di abiti di cotone/ come se la madre al telaio le ha tessute).

Chi aveva con sé il prezioso bagaglio della tradizione orale, in quegli anni diventava con pieno merito “padrone” delle piazze del Salento e, spesso, svolgeva anche compiti delicati come quello di portare messaggi d’amore “su commissione” alle fortunate donne che non potevano non aprire il loro cuore ascoltando i versi del Capitano Black; versi, ad esempio come questi: “Lu piettu te lu bustu spunguliscia,/ li capiddhi allu jentu spattulati,/ tremula lu tarrieniu addù catiscia,/ sutta li piedi soi bianchi squasati./ La vita cu llu fiancu ni jundiscia,/ comu sciunchi allu jentu bbandunati/ de mienzu all’ecchi soi sia ca lampiscia/ a nfacce li tezzuni mpezzecati…” (Il petto dal busto straborda / i capelli sbattuti al vento / trema il suolo che calpesta / sotto i piedi bianchi scalzi / La vita con il fianco ondeggia / come giunchi al vento abbandonati / in mezzo agli occhi suoi sembra che lampeggino sul viso tizzoni ardenti… Da “Fiuru te masciu“- Fiore di maggio)

E il popolo amava quei versi, li ascoltava, li imparava a memoria e li declamava in casa, nei campi o sui diversi luoghi di lavoro come se fossero canzoni. Giuseppe De Dominicis quindi, diventò e restò per sempre il poeta “ti casa noscia”; colui che, con la nostra lingua riusciva a “dipingere quadri” di struggente bellezza che, per fortuna,  dopo quasi un secolo e mezzo, hanno conservato tutto lo splendore dei loro originali colori.