DI ANTONIO RIPA –
Mentre i due amanti ubbidivano alla natura nel gabbiotto, Tutùi stette a languire fuori tutto il tempo. Rinunciò al cibo e alla lotta. Marcò visita per mal di cuore e si sottrasse al suo dovere di pastore come mai aveva fatto. Il lupo che era dentro di lui faceva ormai capolino. Ululò per due notti il suo amore impossibile, prostrato da quel sentimento nuovo, quella sensazione di impotenza che aveva sgretolato il granito del dio egizio che era sempre stato.
Dopo qualche giorno, Pipìcchia era tornata quella di prima, lui no. Non verso di lei. Poteva fare il suo comodo come sempre, ma verso l’infame. Il caprone la pagò cara. Vittima prescelta dall’aguzzino ebbe vita difficile, anzi impossibile. Finché il lupo si rivelò, tutto intero, solo lui, niente equilibri, niente compromessi. Stavolta non mancò il bersaglio. Il caprone sfinito da una fame soverchiante, accumulata per via delle continue interferenze di Tutùi che gli impediva di brucare anche il pascolo lecito o di bere o di riposare, si avventurò in un vigneto di primitivo. Si dedicò al saccheggio di un ceppo carico di grappoli maturi ignorando il ringhio d’avviso e subendo poi la furia di Tutùi che gli lacerò la gola con un solo morso e lo lasciò a rantolare di sangue e di mosto all’ombra dei pampini.
Pochi giorni dopo Pipìcchia partorì. Due bei capretti vispi e avidi di colostro. Il pastore tedesco si eclissò. Il lupo non si fece pregare e si palesò in tutto il suo istinto esibendosi in reazioni abnormi alla minima infrazione. Era fuori di sé. In pochi giorni ferì diverse pecore e capre. Durante la notte si aggirava per gli ovili e le corti abbaiando ai topi che aveva sempre trascurato e creando scompiglio. Il gregge era disorientato, il massaro anche, tanto che si vide costretto a rinchiudere Tutùi, nel posto più sbagliato. Il cibo aveva perso ogni attrattiva, così anche l’acqua. Chiuso nell’alcova dell’infamia, il gabbiotto della stalla delle mucche, Tutùi si ridusse rapidamente pelle e ossa. Era di nuovo granitico, chiuso nel suo silenzio. Non abbaiava, non ululava, non scodinzolava all’arrivo della ciotola che continuava a ignorare. Non era quello il suo posto. Mai ci avrebbe dormito.
Quando fu magro abbastanza tentò di passare tra le sbarre, certo per andare al suo posto vero, al suo angolo appartato, negli ovili, accanto a Pipìcchia. Come un contorsionista ci passò prima le zampe anteriori e la testa, ruotandola a destra e a sinistra come solo lui sapeva fare, con movimenti impercettibili anche dei bulbi oculari per calcolare l’angolo d’inclinazione. Poi trattenne il fiato e il torace passò. Poi con un saltello tentò di far passare il bacino. Ma non c’era torsione che tenesse, il bacino non passava. Era incastrato irrimediabilmente. Le zampe posteriori sospese a mezz’aria cercarono un appiglio per un po’. Rapidamente si mangiarono il poco fiato che gli era rimasto. Tutùi rimase lì, appeso, immobile, in equilibrio. Tenuto in quella prigione dal lupo che era in lui e invocato fuori dal pastore che cerca il suo gregge. Due anime, in armonia tra loro, per sempre.