Foto di Francesco Pastorelli –

di CHIARA CHIEGO –

Provate a immaginare una enorme tavola imbandita: stesa la tovaglia bianca ricamata a mano, quella buona appartenuta al corredo di una nonna o di una zia. I piatti e le stoviglie tradizionali sono colmi di cibi preparati con cura, e nell’aria si spande l’odore dei ceci, del pane caldo, del pesce fritto. Questa è la scena che potreste trovarvi di fronte, se foste invitati a partecipare a una “Tavola di San Giuseppe”. Questa antica tradizione che affonda le sue radici nei valori dell’ospitalità e dell’altruismo, è mantenuta viva un po’ in tutto il Salento: da Monteparano a Cocumola, da San Marzano di San Giuseppe a Spongano con alcune varianti.

Questo rito che si rinnova ogni 19 marzo, festa di San Giuseppe, in alcuni comuni del brindisino prende il nome di mattre che significa spianatoia. Questo nome fa riferimento ai piatti principali offerti, quello della pasta e ceci e del pane: la mattra è la massa, l’impasto con il quale si ricavano paste, pane e focacce.

La nascita delle tavole di San Giuseppe è incerta: forse un’usanza nella quale i più facoltosi si prendevano cura dei più bisognosi, forse dalla tradizione bizantina di allestire tavolate sempre per i più poveri. C’è chi ritiene invece più probabile che siano nate ad opera delle confraternite in onore di San Giuseppe, che servivano la comunità. Sicuramente la matrice cattolica è evidente: durante una tradizionale Tavola di San Giuseppe, la famiglia devota invita non meno di tre Santi – tre persone che dovranno interpretare le figure di San Giuseppe, della Madonna e di Gesù Bambino – e non più di tredici come nell’ultima cena. È importante che il numero sia dispari. Chi prepara la tavola, lo fa alternando le preghiere, al ritmo del rosario. Ai Santi verrà servito il cibo dai padroni di casa che hanno preparato i piatti, ma che non potranno assaggiare niente, se non qualche avanzo.

San Giuseppe guida il pasto, e quando ha finito una pietanza, batte la posata tre volte sul piatto per passare a quella successiva. Dopo aver consumato il cibo, si esegue una preghiera di comunità e di ringraziamento verso il Santo. Una volta la massima devozione si pensava raggiunta quando venivano realizzati tredici piatti per tredici Santi: ben 169 pietanze, e la tavola veniva definita “tutta cotta”. Un impegno grandissimo, segno di un’altrettanta grande devozione.

Il rito delle mattre invece differisce leggermente, perché i piatti sono 12 come gli apostoli, e rimangono intoccati sulla tavola e agli invitati vengono serviti degli assaggini. Inoltre a Grottaglie, Erchie, San Marzano di San Giuseppe, si è soliti realizzare dei falò o delle vere fòcare da incendiare al tramonto.

Il simbolismo cattolico prevale nelle pietanze: il pesce è il richiamo a Gesù, i colori della pasta e ceci ricordano quelli del narciso, fiore primaverile, le cartellate rimandano alle fasce di un Gesù neonato, i lampascioni simboleggiano il passaggio dall’inverno alla primavera. E poi il vino migliore, l’olio più buono, i piatti della tradizione contadina come il purè di fave, le pettole, i purcidduzzi e i grandi pani.

Quella delle tavolate di San Giuseppe è una tradizione dedicata alla rinascita, al passaggio delle stagioni, alla ricerca e alla speranza che la primavera possa portare solo buoni frutti; essere invitati alle tavolate, significa appianare le divergenze e fare parte di un senso di comunità più grande, che nelle nostre frenetiche giornate, spesso va scomparendo.