di ANTONIO RIPA –

Tutto il gregge si conteneva nei limiti imposti, capre, montoni, caproni e pecore e agnelloni. Tutti nel pascolo incolto. Pipìcchia nel grano. O nel campo di trifoglio o nel vigneto di negramaro, nell’uliveto di ogliarole, nel campo di veccia e avena, a seconda della stagione. Lo aveva deciso lui, il pastore tedesco, con la sua autorità e sosteneva la sua decisione con la rudezza del canelupo. Tutùi era tutti e due. La sintesi tra due etnie, due anime tenute sempre in equilibrio. Quella del pastore, che considerava il gregge la sua famiglia da sorvegliare e proteggere, e quella del lupo che lo considerava l’insieme di ribelli sottomessi da dominare con la forza del terrore, con la brutalità di chi decide per la vita o per la morte. Tutùi era sempre lì con la sua seduta severa, nella piena coscienza di commettere una evidente ingiustizia consentendo a una sola, Pipìcchia, di fare il proprio comodo. Proprio quello era l’esercizio del vero potere: formulare una legge che non fosse uguale per tutti. E tenere il muso duro nell’applicarla, scrupolosamente, costantemente, con la veemenza di chi ha la coscienza libera. Tutùi abbaiava poco, quasi niente. Passava la notte col gregge, dormiva a fianco a Pipìcchia, in un angolo appartato, con un occhio chiuso e uno aperto, ligio al dovere. Aveva ridotto a brandelli diverse volpi e più di un cane randagio che avevano osato violare il muro di cinta. Senza inutili abbaiamenti, senza risse chiassose. Aveva anche scavalcato i muri a secco, un paio di volte, andando a portare l’esecuzione capitale in territorio nemico e portandosi poi appresso il trofeo ammonitore. In silenzio. Con poche mosse ben calibrate. Faceva così anche con i cani maschi che popolavano la masseria. Soprattutto per il dominio sulle femmine. O sulla scodella. Lasciava campo libero solo da sazio. Di sesso o di cibo. I gregari approfittavano spesso della sua assenza quando il gregge era al pascolo. Rientravano prima. Lui no. Mai aveva fatto un passo in più o in meno del suo gregge. Suo. Il gregge era suo. Pipìcchia era sua. Lo aveva deciso da subito. Tutti lo avevano accettato. Anche gli altri cani. Le volpi dei dintorni, i gatti e perfino il massaro e i pastori. Quello per Pipìcchia era più di un amore fraterno. Molto di più. Era l’amore accecante, quello che ti fa andare oltre le regole, perfino quelle che tu stesso hai dettato. Se ci fosse stata la possibilità di una fecondazione inter-specie sarebbe di certo nato un canecapro o un caprocane. Ma Pipìcchia non era un cane, né un pastore tedesco né un cane lupo: era una capra! Il massaro dovette isolarla per due giorni. La rinchiuse in un gabbiotto della stalla delle mucche insieme al caprone quando l’estro aveva preso il sopravvento e aveva inchiodato Pipìcchia al suo ruolo di capra da latte e di fattrice. In campo aperto il caprone aveva più volte tentato l’approccio con la caparbietà che gli ormoni di Pipìcchia gli avevano instillato nel cuore e nel cervello. Tutùi si era opposto, col ringhio, con l’insolito abbaio, col pelo alto e i denti bavosi, ma niente. Mancando la gola aveva afferrato il caprone per la zampa anteriore azzoppandolo, e sarebbe andato ben oltre se il pastore non lo avesse fermato…(continua)